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La politica della Chiesa

11 gennaio 2011

CITTA’ DEL VATICANO – Martedì, 11 gennaio 2010 (Vatican Diplomacy). Riportiamo l’editoriale del direttore de L’Osservatore Romano.

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La politica della Chiesa

Agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede – un corpo diplomatico tra i più rappresentativi al mondo – il Papa ha spiegato il ruolo della Chiesa cattolica nel contesto internazionale. Una presenza attiva e rispettosa delle competenze delle autorità civili, animata da una convinzione: che solo Dio risponde al cuore dell’essere umano e che dunque la dimensione religiosa è “innegabile e incoercibile”. Questa è la radice profonda di quella che con un’espressione rapida viene definita la politica vaticana, la quale non cerca inesistenti privilegi ma solo libertà per la missione, caratteristica originaria e costitutiva della comunità cristiana.

Ecco allora la preoccupazione per la libertà religiosa, che per Benedetto XVI è elemento indispensabile nella costruzione della pace. Un diritto fondamentale, dunque, spesso leso o addirittura negato. Oggi è cresciuta la consapevolezza della gravità di questi fenomeni che offendono Dio e l’uomo, rendendo impossibile la convivenza. Si tratta di segnali molto positivi, come le voci preoccupate levatesi in diversi Paesi musulmani e in Europa di fronte alla crescita della cristianofobia e ai sanguinosi attentati che non hanno rispettato nemmeno i luoghi di culto.

L’analisi del Papa è andata alla radice dei pretesti che muovono le campagne di odio, soprattutto nell’immensa regione mediorientale: qui i cristiani – ha ripetuto con le parole del sinodo celebrato in ottobre – sono “cittadini originali e autentici”, come in Iraq ed Egitto, dove la tradizione cristiana è antica e vitale. Non estranei, dunque, ma desiderosi di contribuire alla costruzione del bene comune, fedeli a Dio e leali nei confronti della patria: in Medio Oriente, in Africa, in Cina, dovunque. Per questo Benedetto XVI ha chiesto alle autorità civili dei diversi Paesi gesti concreti a favore di un’autentica libertà religiosa, come l’abrogazione della legge pakistana contro la blasfemia.

Segnali positivi vengono anche dai Paesi di antica cristianità. Se infatti si moltiplicano tenaci tentativi di emarginare la religione – negando il diritto all’obiezione di coscienza in ambito sanitario e giuridico, sopprimendo simboli, imponendo nuove discipline scolastiche, inventando presunti diritti per coprire “desideri egoistici” – il Consiglio d’Europa ha adottato una risoluzione che protegge l’obiezione di coscienza dei medici, mentre molti si sono espressi per l’esposizione del crocifisso, come il Governo italiano seguito da quelli di altri Paesi, e il Patriarcato di Mosca.

Un quadro in chiaroscuro, dunque, dove lo sguardo di Benedetto XVI vede tragedie e difficoltà, ma anche segni positivi. Come è avvenuto per i riconoscimenti nel centenario della nascita di madre Teresa, emblema della politica della Chiesa. Che non pretende favori ma chiede la libertà di testimoniare e annunciare l’amore di Dio in favore di ogni essere umano.

g.m.v.

(©L’Osservatore Romano – 10-11 gennaio 2011)

Udienza al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede

11 gennaio 2011

CITTA’ DEL VATICANO – Martedì, 11 gennaio 2011 (Vatican Diplomacy). Pubblichiamo il video sul canale YouTube del Vaticano e gli articoli apparsi su L’Osservatore Romano di oggi:

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Il primo dei diritti dell’uomo

La traduzione del discorso del Papa al corpo diplomatico

Pubblichiamo una nostra traduzione italiana (dell’Osservatore Romano n.d.r.) del discorso rivolto dal Papa ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ricevuti in udienza nella mattina di lunedì 10 gennaio, nella Sala Clementina.

Eccellenze,
Signore e Signori,

Sono lieto di accogliervi per questo incontro che, ogni anno, vi riunisce intorno al Successore di Pietro, illustri Rappresentanti di così numerosi Paesi. Esso riveste un alto significato, poiché offre un’immagine e al tempo stesso un esempio del ruolo della Chiesa e della Santa Sede nella comunità internazionale. Rivolgo a ciascuno di voi saluti e voti cordiali, in particolare a quanti sono qui per la prima volta. Vi sono riconoscente per l’impegno e l’attenzione con i quali, nell’esercizio delle vostre delicate funzioni, seguite le mie attività, quelle della Curia Romana e, così, in un certo modo, la vita della Chiesa cattolica in ogni parte del mondo. Il vostro Decano, l’Ambasciatore Alejandro Valladares Lanza, si è fatto interprete dei vostri sentimenti, e lo ringrazio per gli auguri che mi ha espresso a nome di tutti. Sapendo quanto la vostra comunità è unita, sono certo che è presente oggi nel vostro pensiero l’Ambasciatrice del Regno dei Paesi Bassi, la Baronessa van Lynden-Leijten, ritornata qualche settimana fa alla casa del Padre. Mi associo nella preghiera ai vostri sentimenti di commozione.

Quando inizia un nuovo anno, nei nostri cuori e nel mondo intero risuona ancora l’eco del gioioso annuncio che è brillato venti secoli or sono nella notte di Betlemme, notte che simboleggia la condizione dell’umanità, nel suo bisogno di luce, d’amore e di pace. Agli uomini di allora come a quelli di oggi, le schiere celesti hanno recato la buona notizia dell’avvento del Salvatore: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is 9, 1). Il Mistero del Figlio di Dio che diventa figlio d’uomo supera sicuramente ogni attesa umana. Nella sua gratuità assoluta, questo avvenimento di salvezza è la risposta autentica e completa al desiderio profondo del cuore. La verità, il bene, la felicità, la vita in pienezza, che ogni uomo ricerca consapevolmente o inconsapevolmente, gli sono donati da Dio. Aspirando a questi benefici, ogni persona è alla ricerca del suo Creatore, perché “solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo” (Esort. ap. postsinodale Verbum Domini, 23). L’umanità, in tutta la sua storia, attraverso le sue credenze e i suoi riti, manifesta un’incessante ricerca di Dio e “tali forme d’espressione sono così universali che l’uomo può essere definito un essere religioso” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 28). La dimensione religiosa è una caratteristica innegabile e incoercibile dell’essere e dell’agire dell’uomo, la misura della realizzazione del suo destino e della costruzione della comunità a cui appartiene. Pertanto, quando l’individuo stesso o coloro che lo circondano trascurano o negano questo aspetto fondamentale, si creano squilibri e conflitti a tutti i livelli, tanto sul piano personale che su quello interpersonale.

È in questa verità primaria e fondamentale che si trova la ragione per cui ho indicato la libertà religiosa come la via fondamentale per la costruzione della pace, nel Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace di quest’anno. La pace, infatti, si costruisce e si conserva solamente quando l’uomo può liberamente cercare e servire Dio nel suo cuore, nella sua vita e nelle sue relazioni con gli altri.

Signore e Signori Ambasciatori, la vostra presenza in questa circostanza solenne è un invito a compiere un giro di orizzonte su tutti i Paesi che voi rappresentate e sul mondo intero. In questo panorama, non vi sono forse numerose situazioni nelle quali, purtroppo, il diritto alla libertà religiosa è leso o negato? Questo diritto dell’uomo, che in realtà è il primo dei diritti, perché, storicamente, è stato affermato per primo, e, d’altra parte, ha come oggetto la dimensione costitutiva dell’uomo, cioè la sua relazione con il Creatore, non è forse troppo spesso messo in discussione o violato? Mi sembra che la società, i suoi responsabili e l’opinione pubblica si rendano oggi maggiormente conto, anche se non sempre in modo esatto, di tale grave ferita inferta contro la dignità e la libertà dell’homo religiosus, sulla quale ho tenuto, a più riprese, ad attirare l’attenzione di tutti.

L’ho fatto durante i miei viaggi apostolici dell’anno scorso, a Malta e in Portogallo, a Cipro, nel Regno Unito e in Spagna. Al di là delle caratteristiche di questi Paesi, conservo di tutti un ricordo pieno di gratitudine per l’accoglienza che mi hanno riservato. L’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, che si è svolta in Vaticano nel corso del mese di ottobre, è stata un momento di preghiera e di riflessione, durante il quale il pensiero si è rivolto con insistenza verso le comunità cristiane di quelle regioni del mondo, così provate a causa della loro adesione a Cristo e alla Chiesa.

Sì, guardando verso l’Oriente, gli attentati che hanno seminato morte, dolore e smarrimento tra i cristiani dell’Iraq, al punto da spingerli a lasciare la terra dove i loro padri hanno vissuto lungo i secoli, ci hanno profondamente addolorato. Rinnovo alle Autorità di quel Paese e ai capi religiosi musulmani il mio preoccupato appello ad operare affinché i loro concittadini cristiani possano vivere in sicurezza e continuare ad apportare il loro contributo alla società di cui sono membri a pieno titolo. Anche in Egitto, ad Alessandria, il terrorismo ha colpito brutalmente dei fedeli in preghiera in una chiesa. Questa successione di attacchi è un segno ulteriore dell’urgente necessità per i Governi della Regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose. Bisogna dirlo ancora una volta? In Medio Oriente, “i cristiani sono cittadini originali e autentici, leali alla loro patria e fedeli a tutti i loro doveri nazionali. È naturale che essi possano godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell’insegnamento e dell’educazione e nell’uso dei mezzi di comunicazione” (Messaggio al Popolo di Dio dell’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, 10). A tale riguardo, apprezzo l’attenzione per i diritti dei più deboli e la lungimiranza politica di cui hanno dato prova alcuni Paesi d’Europa negli ultimi giorni, domandando una risposta concertata dell’Unione Europea affinché i cristiani siano difesi nel Medio Oriente. Vorrei ricordare infine che la libertà religiosa non è pienamente applicata là dove è garantita solamente la libertà di culto, per di più con delle limitazioni. Incoraggio, inoltre, ad accompagnare la piena tutela della libertà religiosa e degli altri diritti umani con programmi che, fin dalla scuola primaria e nel quadro dell’insegnamento religioso, educhino al rispetto di tutti i fratelli nell’umanità. Per quanto riguarda poi gli Stati della Penisola Arabica, dove vivono numerosi lavoratori immigrati cristiani, auspico che la Chiesa cattolica possa disporre di adeguate strutture pastorali.

Tra le norme che ledono il diritto delle persone alla libertà religiosa, una menzione particolare dev’essere fatta della legge contro la blasfemia in Pakistan: incoraggio di nuovo le Autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogarla, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose. Il tragico assassinio del Governatore del Punjab mostra quanto sia urgente procedere in tal senso: la venerazione nei riguardi di Dio promuove la fraternità e l’amore, non l’odio e la divisione. Altre situazioni preoccupanti, talvolta con atti di violenza, possono essere menzionate nel Sud e nel Sud-Est del continente asiatico, in Paesi che hanno peraltro una tradizione di rapporti sociali pacifici. Il peso particolare di una determinata religione in una nazione non dovrebbe mai implicare che i cittadini appartenenti ad un’altra confessione siano discriminati nella vita sociale o, peggio ancora, che sia tollerata la violenza contro di essi. A questo proposito, è importante che il dialogo inter-religioso favorisca un impegno comune a riconoscere e promuovere la libertà religiosa di ogni persona e di ogni comunità. Infine, come ho già ricordato, la violenza contro i cristiani non risparmia l’Africa. Gli attacchi contro luoghi di culto in Nigeria, proprio mentre si celebrava la Nascita di Cristo, ne sono un’altra triste testimonianza.

In diversi Paesi, d’altronde, la Costituzione riconosce una certa libertà religiosa, ma, di fatto, la vita delle comunità religiose è resa difficile e talvolta anche precaria (cfr. Conc. Vat. ii, Dich. Dignitatis humanae, 15), perché l’ordinamento giuridico o sociale si ispira a sistemi filosofici e politici che postulano uno stretto controllo, per non dire un monopolio, dello Stato sulla società. Bisogna che cessino tali ambiguità, in modo che i credenti non si trovino dibattuti tra la fedeltà a Dio e la lealtà alla loro patria. Domando in particolare che sia garantita dovunque alle comunità cattoliche la piena autonomia di organizzazione e la libertà di compiere la loro missione, in conformità alle norme e agli standards internazionali in questo campo.
In questo momento, il mio pensiero si volge di nuovo verso la comunità cattolica della Cina continentale e i suoi Pastori, che vivono un momento di difficoltà e di prova. D’altro canto, vorrei indirizzare una parola di incoraggiamento alle Autorità di Cuba, Paese che ha celebrato nel 2010 settantacinque anni di relazioni diplomatiche ininterrotte con la Santa Sede, affinché il dialogo che si è felicemente instaurato con la Chiesa si rafforzi ulteriormente e si allarghi.

Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente, ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale. Si arriva così a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto.

In tale contesto, non si può che rallegrarsi dell’adozione da parte del Consiglio d’Europa, nello scorso mese di ottobre, di una Risoluzione che protegge il diritto del personale medico all’obiezione di coscienza di fronte a certi atti che ledono gravemente il diritto alla vita, come l’aborto.

Un’altra manifestazione dell’emarginazione della religione e, in particolare, del cristianesimo, consiste nel bandire dalla vita pubblica feste e simboli religiosi, in nome del rispetto nei confronti di quanti appartengono ad altre religioni o di coloro che non credono. Agendo così, non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni. L’anno scorso, alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del Governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Desidero esprimere la mia gratitudine alle Autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso, Episcopati, Organizzazioni e Associazioni civili o religiose, in particolare il Patriarcato di Mosca e gli altri rappresentanti della gerarchia ortodossa, come tutte le persone – credenti ma anche non credenti – che hanno tenuto a manifestare il loro attaccamento a questo simbolo portatore di valori universali.

Riconoscere la libertà religiosa significa, inoltre, garantire che le comunità religiose possano operare liberamente nella società, con iniziative nei settori sociale, caritativo od educativo. In ogni parte del mondo, d’altronde, si può constatare la fecondità delle opere della Chiesa cattolica in questi campi. È preoccupante che questo servizio che le comunità religiose offrono a tutta la società, in particolare per l’educazione delle giovani generazioni, sia compromesso o ostacolato da progetti di legge che rischiano di creare una sorta di monopolio statale in materia scolastica, come si constata ad esempio in certi Paesi dell’America Latina. Mentre parecchi di essi celebrano il secondo centenario della loro indipendenza, occasione propizia per ricordarsi del contributo della Chiesa cattolica alla formazione dell’identità nazionale, esorto tutti i governi a promuovere sistemi educativi che rispettino il diritto primordiale delle famiglie a decidere circa l’educazione dei figli e che si ispirino al principio di sussidiarietà, fondamentale per organizzare una società giusta.

Proseguendo la mia riflessione, non posso passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione.

Signore e Signori Ambasciatori,

in questa circostanza solenne, permettetemi di esplicitare alcuni principi a cui la Santa Sede, con tutta la Chiesa cattolica, si ispira nella sua attività presso le Organizzazioni Internazionali intergovernative, al fine di promuovere il pieno rispetto della libertà religiosa per tutti. In primo luogo, la convinzione che non si può creare una sorta di scala nella gravità dell’intolleranza verso le religioni. Purtroppo, un tale atteggiamento è frequente, e sono precisamente gli atti discriminatori contro i cristiani che sono considerati meno gravi, meno degni di attenzione da parte dei governi e dell’opinione pubblica. Al tempo stesso, si deve pure rifiutare il contrasto pericoloso che alcuni vogliono instaurare tra il diritto alla libertà religiosa e gli altri diritti dell’uomo, dimenticando o negando così il ruolo centrale del rispetto della libertà religiosa nella difesa e protezione dell’alta dignità dell’uomo. Meno giustificabili ancora sono i tentativi di opporre al diritto alla libertà religiosa, dei pretesi nuovi diritti, attivamente promossi da certi settori della società e inseriti nelle legislazioni nazionali o nelle direttive internazionali, ma che non sono, in realtà, che l’espressione di desideri egoistici e non trovano il loro fondamento nell’autentica natura umana. Infine, occorre affermare che una proclamazione astratta della libertà religiosa non è sufficiente: questa norma fondamentale della vita sociale deve trovare applicazione e rispetto a tutti i livelli e in tutti i campi; altrimenti, malgrado giuste affermazioni di principio, si rischia di commettere profonde ingiustizie verso i cittadini che desiderano professare e praticare liberamente la loro fede.

La promozione di una piena libertà religiosa delle comunità cattoliche è anche lo scopo che persegue la Santa Sede quando conclude Concordati o altri Accordi. Mi rallegro che Stati di diverse regioni del mondo e di diverse tradizioni religiose, culturali e giuridiche scelgano il mezzo delle convenzioni internazionali per organizzare i rapporti tra la comunità politica e la Chiesa cattolica, stabilendo attraverso il dialogo il quadro di una collaborazione nel rispetto delle reciproche competenze. L’anno scorso è stato concluso ed è entrato in vigore un Accordo per l’assistenza religiosa dei fedeli cattolici delle forze armate in Bosnia-Erzegovina, e negoziati sono attualmente in corso in diversi Paesi. Speriamo in un esito positivo, capace di assicurare soluzioni rispettose della natura e della libertà della Chiesa per il bene di tutta la società.

L’attività dei Rappresentanti Pontifici presso Stati ed Organizzazioni internazionali è ugualmente al servizio della libertà religiosa. Vorrei rilevare con soddisfazione che le Autorità vietnamite hanno accettato che io designi un Rappresentante, che esprimerà con le sue visite alla cara comunità cattolica di quel Paese la sollecitudine del Successore di Pietro. Vorrei ugualmente ricordare che, durante l’anno passato, la rete diplomatica della Santa Sede si è ulteriormente consolidata in Africa, una presenza stabile è ormai assicurata in tre Paesi dove il Nunzio non è residente. A Dio piacendo, mi recherò ancora in quel continente, in Benin, nel novembre prossimo, per consegnare l’Esortazione Apostolica che raccoglierà i frutti dei lavori della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi.

Dinanzi a questo illustre uditorio, vorrei infine ribadire con forza che la religione non costituisce per la società un problema, non è un fattore di turbamento o di conflitto. Vorrei ripetere che la Chiesa non cerca privilegi, né vuole intervenire in ambiti estranei alla sua missione, ma semplicemente esercitare questa missione con libertà. Invito ciascuno a riconoscere la grande lezione della storia: “Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri. Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane” (Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2011, 7).

Emblematica, a questo proposito, è la figura della Beata Madre Teresa di Calcutta: il centenario della sua nascita è stato celebrato a Tirana, a Skopje e a Pristina come in India; un vibrante omaggio le è stato reso non soltanto dalla Chiesa, ma anche da Autorità civili e capi religiosi, senza contare le persone di tutte le confessioni. Esempi come il suo mostrano al mondo quanto l’impegno che nasce dalla fede sia benefico per tutta la società.

Che nessuna società umana si privi volontariamente dell’apporto fondamentale che costituiscono le persone e le comunità religiose! Come ricordava il Concilio Vaticano ii, assicurando pienamente e a tutti la giusta libertà religiosa, la società potrà “godere dei beni di giustizia e di pace che provengono dalla fedeltà degli uomini verso Dio e la sua santa volontà” (Dich. Dignitatis humanae, 6).

Ecco perché, mentre formulo voti affinché questo nuovo anno sia ricco di concordia e di reale progresso, esorto tutti, responsabili politici, capi religiosi e persone di ogni categoria, ad intraprendere con determinazione la via verso una pace autentica e duratura, che passa attraverso il rispetto del diritto alla libertà religiosa in tutta la sua estensione.

Su questo impegno, per la cui attuazione è necessario lo sforzo dell’intera famiglia umana, invoco la Benedizione di Dio Onnipotente, che ha operato la nostra riconciliazione con Lui e tra di noi, per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo, nostra pace (cfr. Ef 2, 14).

Buon anno a tutti!

(©L’Osservatore Romano – 10-11 gennaio 2011)

L’appello del Papa durante l’udienza generale nel Giorno della memoria

27 gennaio 2010

CITTA’ DEL VATICANO – Mercoledì, 27 gennaio 2010 (Vatican Diplomacy). Anticipiamo il pezzo che apparirà sull’Osservatore Romano di domani 28 gennaio, ed il video del CTV.

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Mai più tragedie
in nome dell’odio razziale e religioso

La catechesi dedicata a Francesco d’Assisi, grande santo e uomo gioioso

Auschwitz

Auschwitz

Nel Giorno della memoria il Papa ha ricordato tutte le vittime dell'”odio razziale e religioso”, in particolare quelle della Shoah, e ha auspicato che “non si ripetano più simili tragedie”. L’appello di Benedetto XVI è risuonato al termine dell’udienza generale di mercoledì 27 gennaio, nell’Aula Paolo VI.

Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli del campo di concentramento nazista della città polacca di Oswiecim, nota con il nome tedesco di Auschwitz, e vennero liberati i pochi superstiti. Tale evento e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono al mondo l’orrore di crimini di inaudita efferatezza, commessi nei campi di sterminio creati dalla Germania nazista.
Oggi, si celebra il “Giorno della memoria”, in ricordo di tutte le vittime di quei crimini, specialmente dell’annientamento pianificato degli Ebrei, e in onore di quanti, a rischio della propria vita, hanno protetto i perseguitati, opponendosi alla follia omicida. Con animo commosso pensiamo alle innumerevoli vittime di un cieco odio razziale e religioso, che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte in quei luoghi aberranti e disumani. La memoria di tali fatti, in particolare del dramma della Shoah che ha colpito il popolo ebraico, susciti un sempre più convinto rispetto della dignità di ogni persona, perché tutti gli uomini si percepiscano una sola grande famiglia. Dio onnipotente illumini i cuori e le menti, affinché non si ripetano più tali tragedie!

In precedenza il Pontefice aveva dedicato la catechesi a san Francesco d’Assisi, ricordandone in particolare la povertà interiore, la disponibilità al dialogo, l’amore per il creato, la devozione eucaristica. Benedetto XVI ha messo in evidenza come la sua opera di rinnovamento della Chiesa non si sia realizzata “senza o contro il Papa, ma solo in comunione con lui”. E ha invitato a non contrapporre il “Francesco della tradizione” al “Francesco storico”, che – a detta di alcuni – “non sarebbe stato un uomo di Chiesa”. Il vero “Francesco storico” – ha puntualizzato – è “il Francesco della Chiesa, e proprio così parla anche ai non credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni”.

© L’Osservatore Romano – 28 gennaio 2010

Il campo di concentramento di Fossoli

27 gennaio 2010

CITTA’ DEL VATICANO – Mercoledì, 27 gennaio 2010 (Vatican Diplomacy). Pubblichiamo il pezzo apparso dall’Osservatore Romano di oggi:

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Nessuno si chiedeva perché

La vacuità del mito degli “italiani brava gente” in un volume sul lager nazifascista di Fossoli

di Gaetano Vallini

“L’alba ci colse come un tradimento” è il grido che Primo Levi lanciò al suo arrivo ad Auschwitz e che la storica Liliana Picciotto usa come titolo del suo ultimo lavoro dedicato al campo di concentramento di Fossoli e pubblicato in occasione del Giorno della Memoria. Ben 2844 ebrei passarono di lì dopo essere stati arrestati dalla milizia repubblichina e dalle SS tedesche prima di venire deportati. “Pochi luoghi in Italia sono stati al centro della Shoah come Fossoli di Carpi”, scrive la studiosa, che aggiunge:  “Se è vero che le deportazioni verso i lager furono attuate dagli occupanti, qui si tocca con mano che i primi mattoni della strada lastricata per Auschwitz furono posti dalle autorità italiane”. Con la rigorosità che contraddistingue le sue ricerche su questa pagina oscura della storia, in L’alba ci colse come un tradimento (Milano, Mondadori, 2010, pagine 312, euro 20) Picciotto ricostruisce con dovizia di particolari la storia del campo e le condizioni di vita al suo interno. Ma il suo è soprattutto un dettagliato atto di accusa:  la polizia italiana riempiva Fossoli, quella tedesca lo svuotava con tragici trasporti verso la Polonia e la Germania. Gli occupanti si servirono dei prigionieri a Fossoli, “offerti loro su un piatto d’argento” e “con evidente rinuncia da parte degli italiani alla loro sovranità”.

Campo di concentramento di Fossoli

Campo di concentramento di Fossoli

“Una delle cose francamente più inquietanti di questa tragica storia – sottolinea la studiosa – è che davvero carabinieri e polizia non furono inumani, davvero guardie carcerarie scambiavano sigarette e chiacchiere con i prigionieri, davvero tolsero le manette ai “detenuti” che stavano accompagnando a Fossoli. Semplicemente essi avevano ricevuto un ordine e lo eseguivano, non avevano bisogno per questo di esercitare crudeltà, non era loro richiesto. Non possiamo però definire tutte queste persone “brava gente”; “brava gente” sono coloro che misero a repentaglio la loro sicurezza per soccorrere gli ebrei in pericolo e sapendo di farlo”.

La ricostruzione della macchina antiebraica da parte della storica – autrice tra l’altro di Il libro della memoria (Milano, Mursia,1992), Per ignota destinazione (Milano, Mondadori, 1994) e I Giusti d’Italia (Milano, Mondadori, 2006) – parte dall’8 settembre. Dopo aver occupato con le sue armate gran parte dell’Italia centro-settentrionale, Hitler rimise in sella l’ex alleato Mussolini, assecondandone il progetto della Repubblica di Salò. La decisione ebbe conseguenze terribili sulle comunità ebraiche. Fu proprio allora che obiettivi e metodi della politica di sterminio nazista vennero tragicamente importati anche in Italia.

Già pesantemente colpiti dalle leggi razziali del 1938 che avevano loro negato i diritti civili, gli ebrei furono ulteriormente perseguitati. Nell’autunno del 1943 le truppe del Reich attuarono autonomamente retate in diverse città, tra cui Roma e Firenze. Per non essere da meno rispetto all’alleato occupante, il governo di Salò emanò una legge che prescriveva l’arresto, l’imprigionamento e la confisca dei beni di tutti gli ebrei d’Italia. Così a partire dal 30 novembre furono le questure italiane a dare loro la caccia. Fu quindi necessario individuare un luogo in cui radunare tutte le persone arrestate. L’area di Fossoli di Carpi sembrò logisticamente la più adatta. Il campo entrò in funzione il 5 dicembre e restò sotto il controllo italiano fino al 15 marzo 1944, quando le autorità tedesche imposero un loro comandante e iniziarono a deportare gli ebrei in attuazione della “soluzione finale”.

Prima dell’arrivo dei tedeschi la vita al campo, per quanto triste e angosciosa, era ancora sopportabile. “Il comandante del campo, così come i prigionieri, erano convinti – scrive Picciotto – che tutti fossero lì riuniti in attesa che la guerra finisse. Nello spazio tra le baracche e le cucine i bambini giocavano a pallone, c’era la possibilità di studiare, cucire, leggere, parlare. Il campo era ben organizzato con varie competenze distribuite tra gli internati”. Il cibo era scarso, ma non drammaticamente mancante. C’era la possibilità per i prigionieri di poter uscire per gravi motivi o per casi urgenti.

In questa fase il parroco di Fossoli, don Franco Venturelli, aveva il permesso di accesso al campo. “Si tratteneva ogni volta per parecchie ore, i prigionieri – si legge – gli si affollavano intorno per ricevere conforto, lui forniva pacchi di viveri e vestiario ma, soprattutto, fungeva da tramite con le famiglie all’esterno”. Collaboravano con don Venturelli altri sacerdoti, tra i quali don Tonino Gualdi, segretario del vescovo di Carpi Federico Virgilio Dalla Zuanna. Con l’arrivo dei tedeschi l’accesso al sacerdote fu negato e le condizioni di vita nel campo peggiorarono drammaticamente.

Documento campo Fossoli

Documento campo Fossoli

A febbraio, ancora prima dell’effettivo passaggio del comando ai nazisti, questi avevano di fatto preso il controllo di Fossoli. Nella prima metà del mese tre militari tedeschi si presentarono per una ispezione e censirono i prigionieri. “Si stava preparando, all’insaputa degli internati, un trasporto per il campo di Bergen Belsen e uno per il campo di sterminio di Auschwitz”. Ma se a Fossoli non si era al corrente di ciò, a Modena nessun alto funzionario della questura, a partire dal questore Paolo Magrini, risultò sorpreso dell’utilizzo del campo come luogo di transito verso i lager in Polonia e in Germania (alla fine, complessivamente, dei 2844 ebrei rinchiusi a Fossoli ben 2802 furono deportati). “Dato che le deportazioni tedesche iniziarono quando ancora gli italiani avevano la piena gestione del circondario, non si può affermare – spiega Picciotto – che ci fu cesura tra la prima fase di Fossoli quale campo nazionale per ebrei voluto dalla Rsi e Fossoli come campo tedesco di polizia e di transito per la deportazione. Questa ci sembra una importante novità da sottolineare con forza e che giustifica la nostra idea di una collaborazione, decisa a livello politico, tra amministrazione italiana e amministrazione tedesca quanto al trattamento degli ebrei”.

Ciò detto, attraverso una ricerca approfondita e appassionata, la storica descrive minuziosamente quanto accadeva nel campo, com’era gestito, come venivano effettuati i trasporti verso i lager, i drammatici viaggi nei vagoni piombati, l’arrivo nei campi della morte. È un diario dell’orrore ricostruito attraverso documenti, testimonianze dei sopravvissuti, deposizioni rese nei processi a criminali nazisti attivi in Italia. Fatti inoppugnabili attraverso i quali si fa ulteriormente luce sulla Shoah degli ebrei italiani – 8948 persone identificate, delle quali 8626 deportate, 322 decedute in Italia, 451 arrestati che i tedeschi non fecero in tempo a deportare – ma che offrono anche lo spunto per una riflessione non meno dolorosa.

“Non si può ignorare – scrive al riguardo Liliana Picciotto – il comportamento di quegli abitanti del circondario di Fossoli che ebbero l’occasione di vedere aumentata la possibilità di scambi di merci e di vettovaglie alla vigilia delle partenze dei convogli. Per non parlare delle forniture di cibo e di trasporti, da e per il campo, richieste a ditte di commercio della zona. Con il gran movimento che si creò intorno al campo, possibile che nessuno si sia mai chiesto chi fossero quei civili giunti alla spicciolata con le loro famiglie, che cosa facessero là, perché partissero a scaglioni, che cosa fossero quei vagoni fermi a Carpi con paglia per terra e un bidone, perché partissero con treni merci come animali inchiavardati dall’esterno, dove fossero diretti? La presenza di numerosi bambini e anziani doveva pur rendere ridicola la comoda illusione che si trattasse di un trasferimento degli ebrei verso campi di lavoro”.

Sono interrogativi terribili, che aiutano a meglio comprendere, come scrive Lorenzo Bertuccelli, presidente della Fondazione ex Campo Fossoli, “la vacuità del mito degli “italiani brava gente” con cui il nostro Paese ha cercato di crearsi un alibi e di evitare di fare i conti con quella tragedia”. Una tragedia, afferma il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un breve scritto introduttivo, “la cui memoria dobbiamo mantenere viva nell’animo dei nostri figli”, perché “soltanto la memoria degli orrori di quel tempo può impedire che essi possano mai ripetersi”.

© L’Osservatore Romano – 27 gennaio 2010

Ebreo e cardinale, il caso di Jean-Marie Lustiger

23 gennaio 2010

CITTA’ DEL VATICANO – Sabato, 23 gennaio 2010 (Vatican Diplomacy). Pubblichiamo due pezzi sul cardinale Lustiger (ebreo convertitosi al cattolicesimo) apparsi dall’Osservatore Romano di oggi:

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Ebreo e cardinale

Jean-Marie Lustiger e il «caso serio» della Francia

Pubblichiamo la parte finale del discorso pronunciato il 21 gennaio dal filosofo francese durante la cerimonia d’ingresso all’Académie française, dedicato alla figura di chi lo aveva preceduto all’Accademia ed era stato arcivescovo di Parigi dal 1981 al 2005.

di Jean-Luc Marion

Jean-Marie Lustiger dava l’impressione, non ingannevole, di abitare costantemente l’ordine della carità. Non voglio dire che era naturalmente caritatevole, né di una dolcezza imperturbabilmente evangelica:  al contrario, le sue collere leggendarie e i suoi giudizi a volte duri cadevano così pesantemente sui loro destinatari solo perché cadevano dall’alto. Vedeva il mondo e le menti nella luce della carità, come si vedono le cose la notte nella luce verde del binocolo elettronico. All’opposto del materialismo, spiegava sempre ciò che è inferiore attraverso ciò che è superiore. Davanti a una situazione politica, si domandava quali forze di odio, di male, di bontà e di fedeltà a Dio erano in campo. Durante un dibattito all’apparenza teorico, ma di fatto spesso colorato d’ideologia, si sforzava d’identificare la situazione spirituale dei protagonisti, di comprendere quello che ognuno amava od odiava. Poiché nella luce del terzo ordine, la verità brilla solo se viene amata, altrimenti accusa, quantomeno nel senso in cui la luce accusa i contorni di ciò che inonda. Veritas lucens, dunque anche e spesso una veritas redarguens:  Jean-Marie Lustiger mi è sempre apparso come una di quelle persone, rare ma decisive, che praticano questa dottrina di sant’Agostino sulla verità.

Da qui la sua lucidità politica, nel senso più nobile:  “l’atteggiamento più altamente rigoroso dal punto di vista morale e spirituale è l’atteggiamento più responsabile politicamente” (Dieu merci, le droits de l’homme, p.195). O ancora:  “Non è soltanto immorale e anticristiano, ma anche anti-politico espellere la morale dalla politica” (ivi, p. 214). Ciò gli ha permesso, fra le altre cose, di non vedere mai una rivoluzione nel 1968 (Le Choix de Dieu, p. 255), di avere predetto nel 1987 il crollo dell’impero comunista in quanto “molto chiaro” (Le Choix de Dieu, p. 294) di analizzare come nessun altro, se non Karol Wojtyla e i protagonisti di Solidarnosc, la rivoluzione in Polonia e in Europa centrale. E di annunciare, nel 1987, anche l’elezione di Barack Obama:  “Immaginate domani un presidente degli Stati Uniti nero:  sarà possibile fra vent’anni” (Le Choix de Dieu, p. 457). Esercitò la stessa lucidità verso il secondo ordine:  “Il reale resiste a ciò che l’uomo ha pensato essere la razionalità. E questo reale è una realtà spirituale” (Dieu merci, les droits de l’homme, p. 318).

È stato così spesso criticato per la sua critica dell’Illuminismo che mi sento tenuto a difenderla e spiegarla. In una parola, quello che è stato denigrato come una banale critica ai Lumi è in realtà un modo molto consapevole di affrontare quello che in questi tempi di angoscia dobbiamo chiamare nichilismo.

È in effetti nella prova universale del nichilismo che ha saputo inscrivere ciò che ha deciso di chiamare la crisi della fede, in particolare la crisi della Chiesa cattolica, prima di tutto in Francia. Jean-Marie Lustiger ha saputo esprimere meglio che in qualsiasi altro contesto il suo “paradosso diagnostico” nel dialogo affascinante che condusse nel 1989 nelle pagine di “Le Débat” con il vostro compianto fratello, François Furet (che divenne il mio amico di Chicago):  “Partirò da una constatazione:  a differenza di altre nazioni europee, la Francia non ha trovato nel cattolicesimo la matrice della sua identità nazionale. In molti Paesi, la Chiesa ha preceduto lo Stato e ha dato una certa consistenza alla nazione attraverso la lingua e la cultura… In Francia, invece, l’idea di nazione non coincide con l’idea cattolica in quanto tale, né d’altronde con un dato linguistico” (Dieu merci, les droits de l’homme, Paris, 1990, pp. 118-119). Contrariamente alla leggenda dorata della “figlia primogenita della Chiesa”, la Francia non ha mai smesso di scristianizzarsi (le guerre di religione, la Rivoluzione, la separazione tra Stato e Chiesa del 1905, l’esodo rurale, e così via) e dunque anche di ri-evangelizzarsi attraverso altrettanti movimenti di conversione (il XVII secolo dei mistici, le missioni del XIX secolo, l’Azione Cattolica e il rinnovamento culturale del XX secolo, e così via). Poiché la “Francia è il solo Paese dell’Europa occidentale, o meglio dell’Europa cristiana, in cui non c’è stata identificazione completa fra il cristianesimo, la cultura e la nazione” (Osez croire, pp. 167 e 243). Che i cattolici si ritrovino oggi in posizione minoritaria non appare come un disastro, né come una novità, poiché non hanno vocazione alla maggioranza, e ancora meno a un’egemonia politica sulla nazione, dalla parte dello Stato o contro di lui. La loro scelta battesimale li destina solo a rendere testimonianza della salvezza che Dio introduce nell’umanità attraverso la presenza di Cristo in essa. Inoltre, perché la Chiesa dovrebbe non intraprendere il cammino che Cristo stesso ha aperto, che la rivelazione di Dio implica sia il suo rifiuto sia la sua accettazione da parte degli uomini? Se il servo non è più grande del padrone, perché la comunità dei credenti dovrebbe sottrarsi alla prova dell’abbandono e della morte, se vuole accedere alla Resurrezione? Al contrario, una Chiesa che trionfa fra gli uomini non dovrebbe preoccuparsi di aver già tutto compromesso con la sua scelta di fare compromessi con il mondo?

In effetti, in questi tempi di disperazione, di nichilismo, bisogna sforzarsi di “non” ricorrere alla volere di potere, in quanto è paradossalmente la loro affermazione a svalutare i valori più alti:  perché, a forza di lasciarsi valutare, i valori tradiscono la loro dipendenza da questa valutazione.
Non supereremo il nichilismo affermando ancora più fortemente nuovi valori, ma smettendo di valutare, ossia di affidarci alla salita al potere della volontà di volere. Ma come potremmo liberarci della volontà di potere? Qui si enuncia la risposta cristiana:  non facendo la nostra volontà, ma la volontà di un altro, non volendo più per affermare la nostra volontà, ma per ricevere una volontà santa, e dunque, proprio per questo, radicalmente altra.

“Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca, 22, 42). Nella crisi della Chiesa, Jean-Marie Lustiger vedeva il centro della crisi universale della razionalità, una crisi talmente profonda che il nichilismo rendeva ineluttabile. Vi rispondeva con una sola rivendicazione, per i cristiani naturalmente, ma anche  per tutti gli uomini, “il diritto di ricercare la verità e di obbedirle” (Devenez dignes de la condition humaine, p. 66).

Forse il suo destino fu di vivere e di morire come Péguy. Scoprendo un racconto del maresciallo Juin, non ho potuto evitare di associarli. Nel 1953, nel suo elogio di Jean Tharaud, l’amico e collaboratore di Péguy, ricordava la morte del poeta cristiano e socialista, avvenuta il 5 settembre 1914 fra Peuchard e Montyon, “a qualche passo da me”. E raccontava “il miracolo di un nemico, che credevamo vittorioso, che si ferma nel punto preciso in cui egli (Péguy) era caduto, per poi retrocedere nella notte”. L’avanzata tedesca si sarebbe così letteralmente bloccata sulla morte di Péguy, persino a causa di essa. E se, oserei dire, Jean-Marie Lustiger, morto e vivo, segnasse per noi il punto di avanzata ultima del nichilismo, dunque il segno della sua ritirata? Cosa suggeriva d’altro nel ripetere che “siamo all’inizio dell’era cristiana” (Dieu merci, les droits de l’homme, p. 451)? Corriamo qui nuovamente il ragionevole rischio di credergli.

Noi abbiamo seguito la storia di Jean-Marie Lustiger sulla scia della scelta, ossia della risposta alla parola, essa stessa intesa come una chiamata. Ma, nel suo caso più che in qualsiasi altro, questa parola diceva la parola per eccellenza, poiché si diceva come il Verbo – e questo “Verbo era Dio”. E dunque la scelta si deve qui intendere come la Promessa, fatta dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di scegliere un popolo e, attraverso di esso, adottare l’umanità lasciata a se stessa e smarrita. Nessun caso quindi qui, in risposta al colloquio intitolato Le Choix de Dieu (1987), La Promesse designa un libro pubblicato il più tardi possibile (nel 2002), ma divenuto inevitabile dal 1982 e l’intervista concessa al quotidiano israeliano “Yedot Haharonot”, con il titolo di Puisque’il faut… (ripreso in Osez croire, 1985). Era necessario, in effetti, cardinale Lustiger! Se lei constatava che la sua “nomina era una provocazione; che metteva il dito nella piaga; che obbligava la gente a riflettere e a sapere la verità” (Le Choix de Dieu, p. 401), era perché essa mostrava pubblicamente quello che lei aveva scoperto dal 1936, quando Aron non si chiamava ancora Jean-Marie:  “Divenendo cristiano, non ho voluto smettere di essere l’ebreo che ero allora. Non ho voluto sfuggire alla condizione di ebreo”, perché al contrario “l’ebraismo non aveva per me allora altro contenuto di quello che ho scoperto nel cristianesimo” (Osez croire, pp. 56 e 60). Una simile evidenza non solo di una continuità, ma persino di un’identità, anche altri, come Bergson, l’hanno vista; ma essa può, in seno a una lunga storia di conflitti fra le due religioni, sorprendere, anzi scioccare. E, da una parte e dall’altra, non è mancato lo stupore, persino l’indignazione. Testimoniano quanto meno la serietà di un dibattito essenziale fra i due interlocutori, poiché di fatto questi imparano a confrontarsi, ognuno per sé e l’uno in rapporto con l’altro, con la scelta e la promessa che li definiscono e che essi rischiano sempre, sebbene in modi diversi, di disconoscere, e dunque di alterare. Cerchiamo dunque di comprendere quello che Aron Jean-Marie Lustiger voleva far intendere.

Innanzitutto voleva dire che (cosa che non può che provocare i cristiani) per un ebreo senza un’educazione religiosa precisa, in altre parole senza una pratica talmudica né una cultura rabbinica, la lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento in continuità fa apparire la Bibbia come un solo blocco. Chiunque conosce la Legge e i profeti, la storia della scelta di Israele e le vicissitudini dell’Alleanza, l’attesa del Messia nella figura del Servo sofferente, può ammettere che il cristianesimo “mi era come già noto. Ero persino sorpreso dal fatto che gli altri non comprendevano quello che io comprendevo” (Le Choix de Dieu, p. 71). In altre parole, è più utile essere ebreo che non ebreo per comprendere Cristo:  “Quando, per la prima volta, mi son trovato veramente dinanzi a dei cristiani, conoscevo meglio di loro quello in cui credevano” (Osez croire, p. 59). Entrare nel secondo testamento  non  implicava alcuna rottura con il primo né con l’identità ebraica, poiché si trattava della stessa promessa.

“Per me, non si è mai trattato di rinnegare la mia identità ebraica. Al contrario, percepivo Cristo Messia d’Israele e vedevo cristiani che non nutrivano stima per l’ebraismo” (Le Choix de Dieu, p. 51). Questa continuità si può ammettere solo se i cristiani rinunciano, anch’essi e per primi, alla rottura, in altre parole se rinunciano a una perversa teologia del verus Israël, all’eresia di Marcione, sempre viva, che mormora all’orecchio che la Chiesa sostituisce Israele e lo annulla. No! Essa vi s’innesta come l’oleastro s’innesta sull’olivo buono secondo un’orticultura ribaltata che l’Apostolo dice “contronatura” (Romani, 11, 24) intendendo per pura grazia. Un cristiano non può accedere al rango di discepolo di Cristo, ebreo, se non con l’inquieta consapevolezza che la “Chiesa non è un altro Israele, essa è il compimento stesso in Israele del disegno di Dio” (La Promesse, pp. 15, 99, 127). “Nel suo Messia, Dio ha compiuto le promesse fatte a Israele” (La Choix de Dieu, p. 76). “Il Cristo, che Dio ha fatto Signore di tutti e Primogenito dei morti, non si sostituisce a Israele; ne è la suprema figura e il frutto perfetto. Non è la negazione d’Israele, è la sua redenzione” (La Choix de Dieu, pp. 359 e 446). La redenzione d’Israele si è compiuta nella redenzione di tutti gli uomini che Cristo integra in se stesso. Poiché tutti i popoli saliranno a Gerusalemme, purché sia la Gerusalemme che discende dal cielo.

Ne consegue che la Chiesa nasce ebrea e che il primo dibattito ha luogo fra gli ebrei che riconoscevano Gesù di Nazaret come Cristo, il Messia, che ha sofferto ed è stato risuscitato da Dio, e gli ebrei che non lo riconoscevano come tale. La prima divisione, dopo la distruzione del secondo Tempio, separò quelli che riconoscevano il corpo di Cristo come l’unico sacrificio che si potesse rendere a Dio e quelli che ormai senza tempio e senza sacrificio, instauravano il culto sinagogale e la lettura talmudica. Cristo ha provocato innanzitutto l’elezione degli ebrei e la Chiesa si definisce innanzitutto fra gli ebrei, che tutti restano però legati all’unica elezione, destinati all’unica promessa. Poiché mai un ebreo può smettere di restare tale nella sua carne, e questo è uno dei suoi privilegi rispetto al cristiano. In poche parole, come si vanta Paolo di Tarso:  “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Romani, 11, 29). Se condivisione ci doveva essere, non ci fu tra gli ebrei e i cristiani, ma essenzialmente e prima di tutto fra gli ebrei restati fedeli alla loro elezione e che, per questo, hanno creduto di dover rifiutare a Gesù la dignità di Cristo e gli ebrei che, per restare fedeli all’unica elezione, si sono decisi a riconoscere Gesù come il Messia.

Così si percepiscono la grandezza e la debolezza della Chiesa dei cristiani che la visione di Aron Jean-Marie Lustiger provoca qui fino in fondo. Una volta associati di diritto i pagani alla salvezza venuta attraverso gli ebrei, certamente, la “Chiesa è allo stesso tempo quella degli ebrei e quella dei pagani” (La Promesse, p. 17). Di conseguenza, però, occorre, perché questi pagani diventino anch’essi autentici cristiani, che smettano di comportarsi come pagani e dunque accettino il loro innesto sull’olivo buono, sulla radice ebraica. Rimettere in discussione questo innesto, dunque qualsiasi forma di antisemitismo, equivale a rinnegare Cristo in loro. “Si può dire che l’atteggiamento concreto dei pagano-cristiani nei confronti del popolo d’Israele è il sintomo della loro infedeltà reale a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato” (La Promesse, pp. 74, 80, 162). Oppure:  “Al centro della storia, il rapporto con l’ebraismo è un test della fedeltà cristiana” (Le Choix de Dieu,  p. 82).  E  ancora:  “Quello che le nazioni fanno degli ebrei verifica quello  che  esse  fanno  di  Cristo” (ivi, p. 84).

Come non pensare qui alle riflessioni critiche di Lévinas a proposito di Montherlant, che vedeva “alleato di un cristianesimo che è soprattutto il cristianesimo dei pagani e non il cristianesimo degli ebrei” (Carnets de captivité, p. 183)? Come non pensare alle tentazioni e ai tentativi di fabbricare un cristianesimo esplicitamente degiudaizzato, un Gesù “dolce galileo”, persino provenzale o francamente ariano? Se dunque l’antisemitismo diviene “veramente il test assoluto” (ivi, p. 156) dell’apostasia cristiana, allora un cristiano antisemita semplicemente non è più cristiano:  “Ai miei occhi, gli antisemiti non erano fedeli al cristianesimo” (Le Choix de Dieu, p. 51). Non si deve dunque confondere l’antiebraismo, disputa fra eredi per sapere chi resta più fedele e merita meglio l’elezione – disputa falsata d’altronde da entrambi i lati, in quanto ogni eletto non può giudicare la propria risposta a un’elezione che gli viene da un altro – confondere, dicevamo, l’antiebraismo con l’antisemitismo, che vuole niente di meno che rifiutare categoricamente quella stessa eredità, e che per riuscire a farlo nega agli ebrei la loro elezione, al punto di annientarli perché incarnano irrimediabilmente la promessa di Dio. La Shoah non costituì solo la più grande violazione dei diritti dell’uomo, essa rappresentò anche la più grande blasfemia contro la legge di Dio, poiché si abbatté sul popolo da Lui scelto, sugli ebrei e, permettetemi di aggiungere, in definitiva anche sui cristiani, sul popolo immenso della promessa universale. L’ateismo moderno, per lo meno nelle sue figure totalitarie compiute, si è voluto non solo anticristiano, ma alla fine anche antisemita, perché “non (poteva) sopportare la presenza “particolare” dell’Assoluto nella storia” (Le Choix de Dieu, p. 84). Non pretese solo di annullare Dio, ma anche di cancellare qualsiasi traccia dell’elezione attraverso la quale Dio si rivela nel mondo.

“Dio è morto”. Certo, ma quale Dio? Nietzsche ha constatato il primo fatto, ma poneva anche la seconda domanda. Per un ebreo “e dunque” un cristiano, la risposta viene da sé:  “Il dio rifiutato non è che il dio dei pagani mascherato da Dio dei cristiani” (La Promesse, p. 101), “l’idolo dei pagano-cristiani” (ivi, p. 134), la folla degli “dei degradati, idoli degradanti” (Devenez dignes de la condition humaine, p. 23). Così meditata da Aron Jean-Marie Lustiger, ebreo e cardinale della Chiesa cattolica, l’elezione non è più un incidente della storia, ma ne fissa il senso e ne schiude le ultime dimensioni. Certo, si può temere, come il suo predecessore su questo stesso seggio, Pierre Emmanuel, che l’elezione resti spesso incerta:  “Il cielo/ È sempre così lontano dalle sue due braccia che tendono/ tutto il peso del dolore dell’uomo verso l’alto/ In una invettiva o in una invocazione, chi può dirlo?”.

Ma, nel profondo di ognuno di noi, sappiamo bene che, persino per noi nelle nostre povere blasfemie, risuona sempre una chiamata, eco persistente dell’elezione  di Aron Jean-Marie Lustiger.

Mentre vorrei cercare di esprimervi, signore e signori dell’Accademia, la mia gratitudine per l’onore che mi avete fatto ricevendomi fra di voi, un timore più grande mi fa tacere:  voi mi avete eletto al seggio che occupava e che occuperà sempre questa figura troppo alta. E, nella sua luce, tutto ci appare più grande e dunque più difficile. Ma anche di questa difficoltà vi sono grato. Che esista dunque, utinam.

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Come Aron diventò Arno

Aron Lustiger nasce a Parigi il 17 settembre 1926 da una famiglia di ebrei polacchi che si era stabilita in Francia prima della prima guerra mondiale. Suo padre lo fa studiare in Germania durante le estati del 1937 e del 1938 per fargli imparare il tedesco, con l’unica precauzione di trasformare il suo nome ebraico Aron in Arno.

Quando i nazisti occupano la Francia, viene nascosto da una famiglia cristiana a Orléans; sua madre e sua sorella vengono catturate e deportate nel campo di sterminio di Auschwitz, dove moriranno nel 1943.
Aron si converte al cattolicesimo e dopo il battesimo prende il nome di Jean-Marie. Viene ordinato prete il 17 aprile del 1954; suo padre Charles, sopravvissuto alla persecuzione nazista, per anni non accettò la scelta del figlio.

Nel novembre del 1979, Lustiger è vescovo di Orléans, mentre tre anni dopo viene promosso alla sede metropolitana di Parigi.

Nel 1988 riceve il Premio Nostra Aetate per l’avanzamento delle relazioni ebraico cattoliche del Center for Christian-Jewish Understanding, un’istituzione americana interreligiosa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Fairfield, Connecticut. Dal 1995 è membro dell’Académie française. Malato di cancro ai polmoni, durante la sua ultima apparizione pubblica, nel maggio del 2007, saluta i suoi colleghi dell’Accademia:  “Probabilmente non mi rivedrete più”.

Muore in una clinica alla periferia di Parigi il 5 agosto 2007; la sua morte, in quanto “grande di Francia”, viene pubblicamente annunciata dal presidente Nicolas Sarkozy. Tra le sue opere più significative Sermons d’un curé de Paris (1978), Osez croire (1985), Le Choix de Dieu (1987), Devenez dignes de la condition humaine (1995), La Promesse (2002).

©L’Osservatore Romano – 23 gennaio 2010